sabato 12 aprile 2014

Giovanni Verga, La roba, analisi del testo (Prof. Maria Mignosa)




 Analisi  del testo narrativo La roba di Giovanni Verga  

 Testo di Maria Mignosa, docente di Lingua e Letteratura Italiana nella Scuola Secondaria Superiore (scritto nel 1999).


 

Preanalisi (E' una parte di lavoro preliminare che viene proposta per indicare il percorso compiuto per definire il rapporto tra fabula e intreccio)

Il testo si articola in  tre sequenze:

1° sequenza
:
Un viandante attraversa stupito in compagnia di un lettighiere la distesa sconfinata dei feudi di Mazzarò

2° sequenza:

Il narratore popolare racconta le tappe dell'ascesa di Mazzarò.
Alcuni fatti costituiscono chiaramente delle analessi (la maggior parte, relativa al racconto della progressiva accumulazione non è del tutto chiaro che lo siano). Il racconto non è rettilineo e non comprende fatti veri e propri ma eventi ripetuti che tracciano una biografia particolareggiata del personaggio dall'infanzia fino all'arrivo della vecchiaia.
[ nel testo narrativo l'analessi è l'inserimento  di fatti, eventi e sim. anteriori al tempo della narrazione].

• Mazzarò nasce povero
• E' accolto per carità nei campi del barone
• Lavora a giornata nelle sue terre
• Conosce lo sfruttamento, la fatica e l'umiliazione
• Diventa da servitore ricco latifondista
• Presta denaro ai galantuomini del paese
• Rifiuta per sé il titolo di eccellenza e gli agi della ricchezza
• Ha alle sue dipendenze 5000 bocche
• Non si sposa per non mantenere una donna
• Gli muore la madre
• Da sfruttato si trasforma in sfruttatore
• Vende beste alle fiere
• Vende il raccolto dei suoi campi
• Contrae la malaria
• Sorveglia con molta attenzione i suoi interessi
• Compra tutti i beni del barone
• Adopera mezzi illeciti per arricchirsi ulteriormente
• Cede in affitto le sue terre improduttive
• E' del tutto insensibile alle lacrime delle mogli dei contadini
• Reinveste tutto nell'acquisto di nuova roba

3° sequenza:

• La vecchiaia impotente
• La follia finale

Analisi

A. Introduzione e contestualizzazione
La novella del Verga appartiene alle Novelle rusticane (1983), che si collocano nella seconda fase della produzione del Verga verista, quando lo scrittore, per effetto della conoscenza diretta di Zolà e Maupassant, mette da parte la partecipazione lirico sentimentale con i personaggi e l'ambiente rappresentato per porsi come osservatore esterno ed impassibile. Vien meno quindi l'idealizzazione sul piano morale dei Malavoglia e di Vita dei Campi e il pessimismo dello scrittore si incupisce sempre più.

Il tema della novella, il mito della roba, dato nel titolo, è assunto in chiave negativa per dimostrarne l'inconsistenza e il fallimento totale, in un mondo dove non ci sono valori alternativi che si salvino. E' stato osservata a questo proposito la contraddizione dello scrittore che si serve del metodo scientifico di matrice positivista per rappresentare una realtà a cui si nega qualsiasi speranza di cambiamento; ma è forse proprio perché il borghese Verga non ha un punto progressivo da difendere, come afferma Asor Rosa, che il rifiuto del giudizio diretto sulla materia rappresentata e il criterio stilistico-strutturale dell'impersonalità sono da lui applicati "con stupenda facilità" .

B. Il tempo esterno del racconto: ambientazione storica e punto di vista
La novella, come si desume da riferimenti storici espliciti diretti (il re, il 12 tarì d'argento come moneta di scambio) e indiretti, deducibili dallo sviluppo della narrazione, è ambientata in Sicilia nell'ultimo periodo della dominazione borbonica. Il quadro storico è a un di presso lo stesso in cui sono ambientati il Mastro don Gesualdo e Il reverendo (tematicamente e cronologicamente vicini al nostro racconto, in cui i riferimenti sono più espliciti), quando anche nell'arretrato sud si verifica l'alienazione del latifondo e il declino dei tradizionali ceti dominanti, l'aristocrazia fondiaria e i piccoli proprietari, qui rappresentati nella decadenza del barone e dei "galantuomini", le "eccellenze del paese", divenuti debitori di un villano arricchito e costretti a parlargli "col berretto in mano".
Il nuovo modello, con l'ascesa di nuovi ceti emergenti interessati a un più razionale sfruttamento della terra, non può ancora definirsi capitalista, in quanto fondato sullo sfruttamento dei lavoratori delle campagne (orari di lavoro massacranti e rapporti semifeudali), sul prevalere della coltivazione estensiva, (uliveti, vigneti, pascoli, campi arati a grano), sul pascolo brado, sulla presenza di vaste zone incolte che attraversano gli spazi coltivati (il biviere di Lentini infestato dalla malaria), sul persistere infine di forme di conduzione dei terreni basate sul modello dell'affittanza.
Verga scriveva negli anni 80', l'età dello sviluppo delle "banche e delle imprese industriali", dell'affermazione dell'economia capitalista, della rapida industrializzazione e del mito del progresso, visto dall'ottica di un intellettuale siciliano di estradizione agraria; e ciò lo porta inevitabilmente a proiettare una sua interpretazione negativa - anche sul piano storico sociale - a tutti quei cambiamenti in atto che, in nome del capitalismo e dell'accumulazione, determinavano lo sviluppo dell'avidità, dell'egoismo, dell'assenza di scrupoli dei nuovi ricchi.
Non è questa naturalmente la chiave di lettura prevalente nella novella. Mazzarò non è infatti uno sconfitto dalla storia e dal progresso, ma dalla natura che non può dargli l'immortalità. Anche in questo caso, come abbiamo visto per Rosso Malpelo, la novella si fonda sullo slittamento dal codice sociale (miseria vs ricchezza; sottomissione vs potere), a quello storico (potere formale vs potere sostanziale; re, barone, galantuomini vs Mazzarò) a quello ontologico esistenziale (morte vs vita; uomo vs natura ). Ma essa non può essere letta tralasciando quei precisi riferimenti temporali: non si comprenderebbero altrimenti né l'ammirazione dell'autore per Mazzarò e per la sua eroica conquista della roba che traspare dall'intero racconto (Mazzaro vi appare come il modello del perfetto self-made-mann di cui altri esemplari sono Gesualdo Motta e il Reverendo), né l'implicita denunzia della disumanità di quell'ascesa che condanna il personaggio alla solitudine e alla sconfitta.

C. I livelli del tempo narrativo: fabula e intreccio, durata, frequenza
Considerato dall'ottica dell'intreccio e del rapporto tra questo e la fabula, il racconto risulta piuttosto difficile da analizzare in quanto è pressocché privo di azioni narrative vere e proprie, che possano essere poste in sequenza logica e cronologica. Per questo è più opportuno forse muovere dall'analisi delle sequenze narrative.
Complessivamente il racconto ne comprende tre: una prima è data dalla descrizione iniziale delle terre di Mazzarò che costituisce l'antefatto del racconto stesso: Mazzarò  è già ricco sfondato, addirittura grande come l'estensione sterminata delle sue terre; una seconda, la più lunga, è una macrosequenza nel corso della quale il narratore si dilunga sull' ascesa e sullo stile di vita del personaggio e costituisce una pausa narrativa nello sviluppo dell'azione; una terza infine, molto breve, in cui il racconto riprende, con l' alternanza di sommario (il breve resoconto della triste vecchiaia e e della esplosione di follia che conclude il racconto), scene (i commenti attraverso l'indiretto libero e il discorso diretto del protagonista ormai consapevole dell'inarrestabile declino e della morte) ed ellissi finale. La morte di Mazzarò non è infatti raccontata, ma lasciata all'intuizione del lettore.
Il punto di massima tensione drammatica è nella scena finale culminata nel gesto di uccisione di anatre e tacchini e nell'esclamazione conclusiva "Roba mia vientene con me".
Nell'economia del racconto lo spazio maggiore è dedicato alla macrosequenza centrale che ricostruisce il processo di acquisizione della ricchezza del protagonista, precedente allo status iniziale di ricco possidente, attraverso l'alternarsi di sequenze narrative per lo più in forma di analessi (che coprono minuziosamente i vari momenti della ascesa) e sequenze valutative (in cui si esprimono giudizi morali sui comportamenti assunti nelle varie circostanze). I fatti non vengono raccontati secondo un ordine cronologico in quanto subordinati ai giudizi morali e alla definizione della complessa caratterizzazione del personaggio. E' possibile comunque ricostruire al suo interno una fabula corrispondente a tre fasi dell'intero processo di acquisizione della roba:
a) la strenua fatica del lavoro subalterno
b) la conquista progressiva della ricchezza
c) gli sforzi ripetuti ed incessanti per accrescerla ulteriormente.

Va precisato però che la narrazione privilegia, dal punto di vista della frequenza, i fatti iterativi (introdotti all'imperfetto), relativi a comportamenti e azioni abituali del personaggio, piuttosto che quelli unici, che meglio concorrono di solito allo sviluppo di un'azione narrativa vera e propria. Solo quattro eventi sono unici in tutto il racconto: la contrazione della malaria, le spese per il funerale della madre, la decisione del barone di non vendere a Mazzarò lo stemma di famiglia, e, nella sequenza conclusiva, il furioso attacco di follia.
Tutto questo ha un preciso significato: al narratore importa infatti tracciare una sorta di biografia del personaggio, assunta a parabola esemplificativa di un modo di vita, tutta finalizzata al processo di acquisizione della roba, in cui quelli che contano non sono tanto gli atti unici, quanto le operazioni ripetute di acquisizione e accrescimento della stessa; i fatti unici servono comunque ad evidenziare la scala di valori del personaggio per i comportamenti assunti in quelle circostanze e a caratterizzarlo: il miserabile funerale della madre, considerato quasi uno spreco, l'inutilità dello stemma nobiliare oggettivamente data dal punto di vista del barone, il terribile gesto finale sono i segni inequivocabili di una scala di valori in cui non c'è posto per nulla che non sia la roba; la malaria, appena un cenno nel racconto, ci presenta un Mazzarò lottatore e vincitore anche contro la malattia.

Assunto in termini di sviluppo dell'azione narrativa, complessivamente, il racconto dei trascorsi di Mazzarò pare non avere, nella sua iterarività, uno svolgimento vero e proprio; non avviene nulla infatti che il lettore non conosca e non si aspetti. Mazzarò appare nella intera sequenza un personaggio vincente che è riuscito a superare ogni ostacolo e difficoltà. Solo la conclusione ne rivela invece il fallimento. E anche la sproporzione fra la lunghezza della seconda sequenza e la brevità della terza concorre a creare il ritmo della narrazione: il racconto dell'ascesa di Mazzarò crea infatti, (l'osservazione è del Materazzi) "un'atmosfera di attesa solenne e di partecipazione emotiva alla sorte del protagonista" che viene "clamorosamente smentita" nell'ultima. Quella straordinaria accumulazione, protrattasi per tutta la vita, si rivela infatti, per chi come il nostro tragico eroe ha costruito in funzione di essa tutta la sua esistenza, un ostacolo insormontabile "per una serena accettazione della legge naturale e della morte".

D. Voce narrativa, punto di vista e livello ideologico del racconto
Il racconto della vicenda di Mazzarò viene affidato a una voce narrativa esterna alla vicenda stessa, rispetto alla quale si presenta come un narratore onnisciente, che nelle due prime sequenze, adotta una focalizzazione interna rispetto al mondo rappresentato, e variabile, costituita inizialmente dal punto di vista colto del viandante e popolare del lettighiere, quindi da quello di un narratore popolare, a cui è affidata tutta la seconda sequenza. Quest'ultimo, assunto nella narrativa verghiana a partire dalla novella Rosso Malpelo, e perfezionato nei Malavoglia, costituisce un modo assolutamente originale del Verga scrittore per interpretare il canone dell'impersonalità dell'arte dei Naturalisti.

In questa novella il narratore popolare filtra il punto di vista dei personaggi o a questi si sovrappone senza che sia spesso possibile distinguere le opinioni dell'uno o dell'altro, anche per le caratteristiche dell'idioletto comune, tranne che nei casi in cui l'opinione dei personaggi è riportata attraverso i loro discorsi. In tutta la terza sequenza smette le sue vesti di narratore popolare per tornare ad assumere quelle di un narratore colto (ma qualche rara intrusione era apparsa anche nella seconda sequenza, ad esempio quando il comportamento abituale dei contadini viene definito "diffidenza contadinesca"), che adotta però la focalizzazione esterna, rinunciando a sovrapporre il suo criterio interpretativo ai fatti e presentandoceli indirettamente attraverso le azioni e le parole del protagonista. Questa variazione delle caratteristiche del narratore e dei punti di vista determina anche le caratteristiche formali del testo che, appare stilisticamente e linguisticamente alto nelle parti in cui il punto di vista è colto, decisamente popolare nelle altre, come avremo modo di precisare ulteriormente.
Poiché la creazione del narratore popolare è uno degli aspetti più significativi del racconto verghiano, val la pena di soffermarsi più ampiamente su questo aspetto, anche per evidenziare come il punto di vista dell'autore, chiaramente presente nel racconto, sia deducibile ancorché non esplicitato. Il Baldi parla a questo proposito di regressione del narratore a livello dei personaggi, in quanto ne assume il linguaggio e ne condivide i valori, come avviene in questo racconto, in cui il narratore fa suoi di volta in volta i punti di vista e i giudizi del lettighiere o delle figure che ruotano intorno al protagonista, una sorta di coro anonimo e senza una precisa parte nell'azione narrativa, e dello stesso protagonista, riproducendone chiacchiere e discorsi attraverso l'indiretto libero, l'indiretto e, nel caso del personaggio principale, con un procedimento insolito nello scrittore, attraverso il discorso diretto. Egli insomma è un anonimo narratore che partecipa culturalmente ed ideologicamente del mondo rappresentato, condividendone l'ammirazione per il modo come Mazzarò, il cui cervello è definito più volte un "brillante", è riuscito a procurarsi la roba; e non condanna il cinismo del personaggio e i modi di sfruttamento dei suoi dipendenti, anzi pare apprezzare tali metodi quando apertamente si dissocia dal criterio di gestione delle terre da parte del barone, definito da lui e dallo stesso Mazzarò un "minchione". In qualche caso egli pare condividere però la malevolenza dei paesani, il loro disprezzo per la "piccolezza" dell'uomo, la malcelata invidia.

Altrettanto significativo è il punto di vista del narratore colto e il modo come questo si intreccia con quello del narratore popolare, soprattutto per definire l'ideologia del testo. Col narratore popolare l'autore condivide infatti l'ammirazione per la figura del protagonista. Non ci sembra fuori luogo infatti lo stupore per la grandiosità dei suoi possedimenti che traspare nella sequenza descrittiva iniziale , ancorché questo sia del viandante, dal cui punto di vista è raccontato il viaggio attraverso le terre di Mazzarò. Dietro di esso ci sembra di cogliere il punto di vista dell'autore, coincidente con quello del narratore popolare (la spia è nel linguaggio ugualmente iperbolico adottato per indicare le ricchezze del personaggio dai due punti di vista, sulle cui caratteristiche linguistiche avremo modo di tornare più analiticamente). Nell'ideologia verghiana la roba infatti non costituisce un valore negativo in sé, è anzi una componente del conservatorismo dello scrittore. La grandiosità dei risultati è il frutto della fatica e della tenacia per conseguirla (non della fortuna), per la quale lo stesso Verga nutre una qualche ammirazione; ugualmente all'autore non è estranea l'ammirazione del narratore popolare per le distese di campi coltivati, per l'abbondanza del raccolto, per l'allegria delle mandrie di Mazzarò che attraversano il paese al tempo delle fiere, a cui persino la banda del santo è costretto a cedere il passo.

La riserva nasce, se mai, per la disumanità di quel grandioso processo di accumulazione che il narratore non commenta affatto, limitandosi a presentarcene il fallimento. E' quanto traspare nell'ultima parte del racconto in cui la clamorosa assenza del punto di vista dell'autore-narratore assume un preciso significato in quanto diviene spia - proprio per la sua assenza - del pessimismo dello scrittore che, rinunciando ad esprimere qualsiasi commento diretto o indiretto all'epilogo tragico della vicenda, ce ne presenta la tragedia in atto nelle parole e nei gesti del personaggio che, attraverso la distruzione simbolica della sua roba, attua la sconfessione di sé stesso. La vicenda di Mazzarò si presenta così, senza commento, in tutta la sua tragicità.

E' stato detto a questo proposito che anche il silenzio dell'autore implicito è una spia dell'ideologia dell'autore combattuto in una contraddizione insanabile: il riconoscimento nell'ottica di intellettuale agrario del valore insopprimibile della roba, l'ineludibilità della legge della pura economicità, senza la quale la roba non si accumula né dà frutto, e la consapevolezza della impraticabilità di un modello alternativo, fondato su valori più autentici e in buona sostanza più "umani", dato il carattere di ferrea necessità di quella legge che regola i rapporti degli uomini a tutti i livelli.


E. I personaggi
La novella può essere analizzata sia dal punto di vista della caratterizzazione del personaggio protagonista che dei ruoli assunti dai personaggi (attanti) nello svolgimento dell'azione.
La caratterizzazione del personaggio è a tutto tondo, in quanto è possibile coglierne l'evoluzione: dalla condizione iniziale di povero derelitto, accolto per pietà a lavorare nelle terre del barone, a quella di ricco latifondista sfruttatore e cinico, alla negazione di sé stesso nel gesto finale il cui significato simbolico, già sottolineato, costituisce una smentita di sé stesso e del suo precedente sistema di vita.

Il ritratto del protagonista emerge nelle sue caratteristiche fisiche e psicologiche in forma indiretta attraversa la mediazione del narratore popolare e dei vari punti di vista, e in forma diretta attraverso le parole del protagonista. Del ritratto fisico l'elemento principale è la piccola statura dell'uomo data dalle parole del lettighiere ("era un omiciattolo che non gli avreste dato un baiocco a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia" ) e indirettamente dallo esiguità dello spazio fisico da lui occupato, rispetto alla grandezza della roba (mangiava "all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa… o a ridosso di un pagliaio o con la testa dentro un corbello"), completamente opposto a quello metaforico, esteso quanto le sue sterminate terre. La piccola statura é quindi assunta per antifrasi, quasi a volerne indicare la grandezza rispetto ai traguardi raggiunti, naturalmente nell'ottica popolare che non manca di richiamare, attraverso la similitudine, tre volte ripetuta, dei magazzini grandi come chiese, la sacralità della roba. Come contraccambio alla piccola statura dell'uomo la sua testa é però "un brillante" , cioè il più prezioso dei gioielli nell'ottica popolare, quanto basta per acquistare tutta quella roba.

Se poi andiamo a guardare le caratteristiche del personaggio attraverso i suoi comportamenti notiamo come esso si definisca attraverso una serie di negazioni o deprivazioni: "la sua bocca mangiava meno di tutte ", non beveva, non fumava, non usava tabacco, non aveva il vizio delle donne , "non voleva carta sudicia" , "dormiva cogli occhi aperti" , "non aveva denaro" assunte a comportamenti esemplari secondo l'unica ottica che è quella economica.

In controluce traspare però la negatività di quel comportamento che condanna il personaggio a negazioni più grandi, il non aver "figli né nipoti né parenti" .

La disonestà la rapacità e il cinismo dell'uomo emergono, anche attraverso l'ottica straniata del narratore popolare, che lascia trasparire una qualche perplessità per la rapacità di Mazzarò ai danni di quel proprietario di una chiusa limitrofa, "povero diavolo " perché "ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa" anche se, secondo quella logica distorta, il povero diavolo ne era in parte responsabile, in quanto "si era ostinato" a non cedergliela e "voleva prendere pel collo Mazzarò".

Da quest'ottica abbiamo considerato il personaggio principale. Più utile per definire l'ideologia sottesa al racconto è l'analisi del sistema dei personaggi in relazione ai ruoli. Nel racconto riscontriamo il ruolo di eroe (Mazzarò); antieroe (il barone, le eccellenze del paese); oggetto del desiderio (la roba, "voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re ed essere meglio del re, ché il re non può né venderla né dire ch'è sua"); aiutante (nessuno, in quanto il personaggio è tragicamente solo, tranne forse indirettamente la "minchioneria" del Barone ); oppositori (quanti nell'ottica di Mazzarò costituiscono un ostacolo alla sua acquisizione della ricchezza : il re a cui bisogna pagare le tasse, i contadini da mantenere, i corvi che vengono a mangiare parte del suo raccolto, tutti coloro che nella sua diffidenza crede vogliano derubarlo, i piccoli contadini che vogliono prenderlo "pel collo"); antagonista (la natura che non può dargli l'immortalità). La rete di relazione che si viene ad instaurare tra i personaggi e soprattutto il rilievo assunto dall'antagonista alla fine del racconto, evidenzia come Verga non abbia voluto offrirci un racconto sociale o d'ambiente, una tranche de vie, come accade di solito nel racconto naturalista, né la rappresentazione del contrasto tra gruppi sociali contrapposti di sfruttatori e sfruttati, ma la contraddizione insanabile tra l'aspirazione ad un valore assoluto e sacro come quello della roba e i limiti deterministicamente posti dalla natura all'uomo.

F. Il significato simbolico del tempo e dello spazio
La novella appare significativa anche per il riferimento simbolico delle categorie spazio temporali che appaiono costantemente intrecciate:
Nella lunga sequenza introduttiva i possedimenti di Mazzarò sono uno spazio vasto e sconfinato, assunto in relazione al tempo dilatato percepito dal viandante per attraversarlo: (la lunga strada polverosa, una fattoria grande come un paese, una vigna che non finiva più, le lunghe file di aratri che si incontravano verso sera, i buoi che pascolavano lentamente, il fischio del pastore che echeggiava per le gole), tempo reso ancor più dilatato per gli stacchi temporali tra i momenti di veglia e stupore del viandante, davanti a così smisurata distesa di ricchezze e quelli dell'intorpidimento prodotto dalla noia, dalla calura, dalla fatica del viaggio. Il personaggio appare davvero identificarsi con lo spazio sconfinato e il tempo interminabile impiegato per transitare i suoi pascoli, uliveti, vigneti, campi coltivati da persona ignara del luogo che mentalmente allunga la via: ("Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia").

Spazio sterminato e tempo lunghissimo della prima sequenza corrispondono con lo spazio in cui si muove il protagonista e col tempo, interno alla sua vicenda, per la conquista e l'accrescimento della roba. Mazzarò, infaticabile e insonne, par quasi provvisto del dono dell'ubiquità, onnipresente a tutte le ore e le stagioni, nei magazzini grandi come chiese, a cavallo dietro le file dei mietitori, sotto il sole e sotto la pioggia, o addormentato con gli occhi aperti presso un mucchio di covoni, mentre sorveglia i contadini sui quali è piombato all'improvviso. Più che dal ritmo ciclico del lavoro dei campi il tempo e lo spazio di Mazzarò appaiono segnati da quello accelerato per la conquista di una "roba" che, nella sua "fame" senza fine, vuole sempre più estesa.

Alla fine del racconto assistiamo ad un vero e proprio capovolgimento, non più il tempo eterno e convulso del logorio e della strenua fatica (lungo, ma sterile è nell'ottica di Mazzarò quello del contadinello scalzo), ma all'improvviso divenuto brevissimo e inerte; non più lo spazio attraversato in lungo e in largo, ma quello statico del personaggio immobile delle ore a guardare, seduto su un corbello, "le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia", divenuti ormai segno della sua definitiva sconfitta.

G. Caratteristiche linguistiche e stilistiche
Abbiamo già rilevato la discordanza linguistica e stilistica della prima e della terza sequenza rispetto al resto del racconto; la descrizione iniziale e l'epilogo finale sono infatti chiaramente condotti con un linguaggio che pare assimilabile a quello di un narratore colto in quanto ha ben poco dell'idioletto del narratore popolare. La terza sequenza inserisce il linguaggio popolare solo attraverso il solito procedimento dell'indiretto libero che riporta le parole di Mazzarò ("questa è un'ingiustizia di Dio, che dopo essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla che ne vorreste ancora, dovete lasciarla"). Il linguaggio delle restanti parti è invece quello del narratore colto, come è evidente nel passo appena citato di Mazzarò che contempla immobile i suoi campi: la "nebbia" che vela la montagna, anche se assunta come termine di similitudine per indicare il rigoglio degli ulivi, viene ad avere infatti un significato metaforico in quanto proietta una nota di tristezza nella vitalità della campagna, in quegli oliveti inutilmente rigogliosi, in quelle vigne e in quelle messi invano ondeggianti, da un punto di vista che, se materialmente é quello del personaggio Mazzarò, si incrocia con quello dell'autore colto. Il primo infatti non è in grado di ammettere e accettare la sua sconfitta, l'altro la registra impassibile. (La tecnica è affine a quella magistralmente usata da Flaubert in Madame Bovary)

Quanto alla prima sequenza il linguaggio del narratore popolare traspare solo quando il suo punto di vista coincide con quello del lettighiere a proposito di Mazzarò, ("non mangiava altro due due soldi di pane; e sì ch'era ricco come un maiale; ma aveva la testa come un brillante quell'uomo") e quando viene rappresentata la iperbolica grandezza delle fattorie "grandi come case" , dei "magazzini che sembravano chiese", della "vigna che non finiva più ", che anticipa la descrizione iperbolica delle sterminate ricchezze del nostro personaggio che attraversa tutto il racconto ( "i suoi aratri erano numerosi come le file dei corvi", "file di muli che non finivano più …" "le donne non si potevano contare", "i mietitori sembravano un esercito di soldati", "le lasagne si scodellavano nelle madie " ecc.).

Ma l'analisi della prima sequenza mi pare ancor più significativa per definire il significato dell'intero brano, dal punto di vista dell'autore implicito.

Nella descrizione del paesaggio il punto di vista è, come abbiamo osservato, quello di un intellettuale colto per il modo stesso in cui esso è impressionisticamente rappresentato, coi colori intensi ma abbagliati della campagna siciliana e i contrasti luce ombra (gli "aranci sempre verdi" , i "sugheri grigi ", il sole "rosso come il fuoco", "le lunghe file degli aratri " che "adagio adagio " incedono, come i buoi che "passavano il guado lentamente col muso nell'acqua scura", le "galline a stormi accoccolate all'ombra", la "pendice brulla" su cui pascolano le "immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò"). Nello stupito silenzio del campo lungo, in cui cose e animali paiono assecondarsi coi rumori sfocati dello sfondo (l'eco del fischio del pastore nelle "gole", un canto "solitario perduto nella valle", il suono intermittente del campanaccio) o quelli del piano medio (i campanelli della lettiga che "suonano tristemente", cui fa eco "la canzone malinconica" del lettighiere; o l'abbaiare improvviso di un cane) che rompono il silenzio della vasta campagna, è assente o quasi la presenza umana, ridotta alle sparute parvenze del solitario viandante e del lettighiere o a quelle destate dal loro passaggio ("la donne che si mettevano la mano sugli occhi", il "guardiano" che "levava il capo sonnacchioso").

Ciò accade perché, al di là delle poche animate presenze di uomini e animali, che paiono far parte della immobilità del paesaggio, al di là della presenza grandiosa di magazzini chiese, uliveti, vigneti, pascoli di Mazzarò, l'unica realtà tangibile è un'entità inanimata, la malaria (cui si fa cenno tre volte) che, con la sua minaccia di morte, pesa sugli occhi dei viaggiatori solitari, oppressi dalla calura e della polvere e sulla campagna sconfinata ("la vigna che … si allargava sul colle e sul piano immobile come gli pesasse addosso la polvere"). Riflesso psicologico di tale presenza incombente, nella immobilità sonnolenta di cose e uomini sono la tristezza, la malinconia, la desolazione più volte richiamati. Ci sembra che tale presenza oscura, silenziosa, diffusa che si leva dal "pezzo di mare morto" del biviere di Lentini, ben si attagli al significato del racconto, la morte che incombe sul protagonista -nonostante le sue sterminate ricchezze- contro la quale è inutile lottare.

Sul piano stilistico anch'esso contrastante con le caratteristiche di linguaggio del narratore popolare, il passo si caratterizza per la presenza di una struttura sintattica complessa, con numerosi periodi a incastro ed ellissi, sostanzialmente equilibrati per la corrispondenza di membri paralleli che conferiscono al periodare un ritmo cadenzato, e per l'uso sistematico del polisindeto (ben 23 segmenti testuali collegati dalla congiunzione e, che par rendere percettivamente la conquista progressiva da parte del viaggiatore dello spazio e del trascorrere del tempo ("Il viandante che andava lungo le stoppie riarse … e gli aranci …e i sugheri…e i pascoli; … E passando… E cammina e cammina… e verso sera… e si vedevano… e si udivano ..."); o il blocco unitario in cui le presenze che si offrono allo sguardo vengono percepite ("i campanelli …e i muli…e il lettighiere"); Nell'ultima proposizione, attraverso il polisindeto viene resa l'estensione senza confini, limiti e divieti di tutto ciò che appartiene a Mazzarò ("Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava…e le cicale che ronzavano…e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell'assiolo nel bosco") che, mentre rende l'idea del possesso senza fine e senza limiti dell'uomo che si estende oltre la terra, al sole e alle libere creature dell'aria, pare richiamare per contrasto, rispetto al tempo ciclico della natura (il riposo del sole che pure non muore e degli uccelli che si rinnovano) quello insonne, frenetico e senza riposo del protagonista destinato a morire. Anche attraverso questo contrasto affiora, in tutta la sua evidenza, la tragedia di Mazzarò, e l'inutilità della sua sfida che può vincere tutti gli ostacoli, ma non certo l'unico, invalicabile che è quello segnato dalla natura.

Per la seconda sequenza rileviamo invece che, attraverso l'adozione del narratore popolare, il Verga offre una lingua che attinge al parlato contribuendo a connotare linguisticamente e socialmente il mondo rappresentato (Spitzer parla,  a proposito dei Malavoglia (ma l'espressione può essere estesa anche al nostro testo) di "coro di parlanti semireale", proprio perché è il dialetto la lingua che i personaggi verghiani dovrebbero parlare, se realisticamente resi). La lingua verghiana è però spesso traduzione dal dialetto, ma con intatta la connotazione linguistica dialettale e in parte la struttura. Questa si caratterizza, dal punto di vista formale, oltre che per l'uso del discorso diretto, dell'indiretto e dell'indiretto libero, di cui abbiamo detto (ma nel testo se ne trovano numerosissimi esempi), anche per l'uso di connessioni logiche colloquiali e improprie (sgrammaticature secondo l'italiano colto); dal punto di vista del significato per la presenza di proverbi e locuzioni proverbiali ad essi assimilabili, o di locuzioni ed espressioni popolari talvolta metaforiche, infine di numerosissime iperboli, similitudini e comparazioni, che nella maggior parte dei casi rinviano alla sfera dei rapporti sociali ed economici: Citiamo a titolo esplicativo alcuni esempi tratti dal racconto:

Discorso libero indiretto
Tra tanti esempi i seguenti che riportano i discorsi di Mazzarò (a, b) o del coro (c):
a "Che lui non ne voleva di carta sudicia";
b "Perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re ed essere meglio del re"
c "Tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro quelli che ora gli davano dell'eccellenza e gli parlavano col berretto in mano"

Uso di sintassi e forme dialettali
• uso del che polivalente tipico delle lingue dialettali con significato consecutivo, esplicativo, causale od altro ("…all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che (= tanto fitta che) non ci si vedeva"; "Era che (= infatti) ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba …"; "… quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che (= a tal punto che) bisognava scoprire il tetto per farcelo capire tutto"; "ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che (= in quanto) Mazzarò se l'acchiappava". Numerosi altri esempi sono disseminati nel testo.

Forme dialettali come: espressioni dialettali ("per farcelo capire"); anacoluti ("ogni volta che vendeva il vino… ci voleva più di un giorno per contare il denaro"); ridondanza pronominale ("a Mazzarò gli veniva la febbre"; "gli preparavano anche l'alloggio e il pranzo al minchione"); verbi intransitivi usati come transitivi ("costui vuol essere rubato"); altro...

• Uso di proverbi ed espressioni proverbiali, locuzioni colloquiali, similitudini, iperboli, epiteti:

a) Proverbi e locuzioni proverbiali: "La roba vuol stare con chi sa tenerla e non la sciupa"; "la roba non è di chi l'ha ma di chi la sa fare".

b) Locuzioni ed espressioni colloquiali talvolta metaforiche: "di donne non aveva mai avuto sulle spalle altro che sua madre"; "egli aveva la vista lunga", "nudo e crudo"; "e costui (il barone) uscì prima dall'uliveto, e poi dalle vigne e poi dai pascoli …; "ci metteva sotto la sua brava croce"; "e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre ogni volta"; "col sovrastante a cavallo che vi piglia a nerbate se fate di drizzarvi un momento" (si noti in quest'ultimo caso l'uso del presente atemporale e non dell'imperfetto del libero indiretto, come ci si aspetterebbe; l'uso, che è proprio dei proverbi, viene qui esteso ad una massima generale non cristallizzata come l'espressione di un proverbio, ma ad esso assimilata).

c) Similitudini e comparazioni (numerosissime) spesso assunte con significato di iperbole e desunte dal mondo contadino: tabacco "colle foglie larghe ed alte come un fanciullo"; "colla testa come un brillante" ; "magazzino grande come una chiesa"; "meglio di una macina di mulino", "il denaro entrava e usciva come un fiume", "pareva che ci avesse la calamita".

d)  epiteti : "minchione" detto del barone.



11 commenti:

Unknown ha detto...

che noia

Unknown ha detto...

capolavoro assoluto ed ottima analisi

Anonimo ha detto...

analisi molto approfondita e utile, grazie

Unknown ha detto...

Non se capisce niente

Unknown ha detto...

Un corbo a Livia

Unknown ha detto...

Ce vorria Benito lui con la roba ce sapeva fa

Unknown ha detto...

Gggg di un gggg di triplo gggg di un gggg

Unknown ha detto...

YouTubo anch'io se ne magnata tanta de roba

Unknown ha detto...

Batte a repone a ti e la roba

Sofia ha detto...

fa scifo


Anonimo ha detto...

IL COMMENTO è MOLTO UTILE E APROFONDITO ....COMPLIMENTI